Brand umani in pillole
Riflessioni quotidiane che aprono spazio all’ascolto.
I brand ci fanno sentire al sicuro
Un brand umano lavora con le stesse intenzioni. Ogni genitore lavora per offrire alla propria famiglia una vita che vale la pena essere vissuta. Serenità, benessere, possibilità, opportunità, sicurezza, diritti, salute. Il tutto si trasforma in una vita che possa avvicinarsi il più possibile a quel sentimento chiamato felicità. I brand umani fanno lo stesso, lavorano per far sentire le persone parte di un “qualcosa” che è così speciale da farci sentire al sicuro.
La grandezza del brand
La grandezza di un brand risiede nella sua coerenza, nella cultura che rappresenta e nella visione che lo guida.
Peter Drucker dice che la “grandezza” di un’azienda deriva dalla sua capacità di servire i bisogni delle persone e di creare valore oltre il profitto. Anche Simon Sinek, con il suo concetto di “Why” nel modello del cerchio d’oro, afferma che la gente non “compra” ciò che una persona o un’azienda fa, bensì “compra il motivo” per cui l’azienda fa quella cosa: atti di condivisione che, andando oltre il successo superficiale, raggiungomo un livello di grandezza più profondo.
Platone associava la grandezza alla saggezza e alla giustizia. Aristotele parlava di “grandezza d’animo”. Per Sant’Agostino la vera grandezza è una questione di virtù e di servizio verso il divino e gli altri, piuttosto che di potere o di successo terreno.
Essere o diventare grandi non è solo una misura quantitativa, ma un cocktail di qualità che, seppur a volte vanno raggiunte controcorrente, ci consegnano impatto, significato e cambiamento.
Alla scoperta dei nostri perché
Con l’arrivo delle festività natalizie, abbiamo l’occasione di rallentare, prenderci una pausa e guardare con occhi nuovi al nostro percorso. In questa newsletter, desidero proporvi una riflessione: un momento per esplorare insieme quelle domande fondamentali che possono dare un nuovo significato al nostro lavoro e alla nostra vita. Perché facciamo ciò che facciamo?
Questa è la newsletter di dicembre. Continua a leggere qui
Il brand come portatore di messaggi
Le persone non si connettono a un prodotto, ma a ciò che quel prodotto rappresenta.
La conferma a sostegno del progresso
L’atto creativo esposto o condiviso diviene moltiplicatore del messaggio ed è in questo cammino valoriale che si conferma la vera ricchezza.
Chi fa crescere due fili d’erba dove prima ne cresceva uno merita la gratificazione del genere umano (Jonathan Swift).
Vivere con equilibrio: riappropriamoci del nostro tempo
O semplicemente (che poi semplice non è) prendersi cura di sé stessi.
Vivere richiede dedizione e serenità. Richiede tempo. E spesso ci capita di non averlo, perché il lavoro ce lo sottrae, giorno dopo giorno.
Ma se avessimo la possibilità di lavorare dove, quando e come vogliamo? Se potessimo organizzare il nostro tempo secondo le nostre esigenze personali e non il contrario?
Equilibriamo la nostra vita, che è nostra e di nessun altro. Riappropriamoci del nostro tempo, del nostro lavoro, dei nostri affetti, dei nostri spazi.
Vivere significa mettere al primo posto ciò che conta davvero. Sempre. In ogni momento della nostra giornata. Questo lavoro non viene misurato. Non è obbediente. Non prevede giorni festivi.Eppure lo facciamo. Lo facciamo perché è importante. Lo facciamo perché lo vogliamo. Lo facciamo perché ci fa bene. Perché ci rende liberi.
Se il nostro lavoro ci desse le stesse emozioni? Se il nostro lavoro fosse così faticoso e gratificante da renderci orgogliosi dei risultati, senza bisogno di imposizioni o controlli?
Potremmo finalmente dire che vivere significa fare un lavoro che conta.
L’unico davvero accettabile.
Le marche ci rendono protagonisti del nostro tempo
Dalle nostre marche attendiamo con ansia il prodotto di prossima uscita e stiamo bene quando viviamo il servizio. Le cerchiamo su web salvandole nei preferiti, le seguiamo sui social e in giro per il mondo. Siamo pronti a difenderle se vengono attaccate e le supportiamo nelle scelte.
Attraverso le nostre marche ci differenziamo ed entriamo a far parte di comunità che comunicano unicità e differenziazione. Nello stesso modo siamo creatori, a volte inconsapevoli, di prodotti e servizi. Ne guidiamo il cambiamento facendo attenzione che non diventino semplici mode di passaggio. Claudio Alvarez , professore assistente di marketing presso la Hankamer School of Business della Baylor University, ha detto che stare con una marca è come stare con un amico. Penso che sia molto di un più. Il sentimento è molto più profondo e meno visibile.
I brand umani anticipano il futuro
E se hai più di 40 anni, ricordi la prima volta che hai portato con te il tuo Walkman?
Avresti mai immaginato, più di dieci anni fa, di condividere la tua vita personale e professionale su quelli che oggi chiamiamo social media?
E oggi, quanto è normale portarsi il lavoro ovunque, con un portatile e una connessione mobile?
“La gente non sa cosa è possibile produrre, noi sì.”
— Akio Morita, fondatore di Sony e inventore del Walkman
Morita aveva una visione chiara: guidare le persone verso prodotti che ancora non sapevano di desiderare.
Non si trattava solo di vendere, ma di anticipare il cambiamento, comprendere profondamente le persone, le loro abitudini e i loro sogni.
Chi offre consulenza, prodotti o servizi, se lavora con onestà e professionalità, sa che la chiave del successo non è semplicemente soddisfare una richiesta.
È capire a fondo il cliente, anticiparlo, accompagnarlo e guidarlo verso ciò che migliorerà davvero la sua vita.
Questo è il dovere di un brand umano.
Un brand umano non si limita a vendere, ma crea valore reale.
Progetta prodotti, servizi, esperienze capaci di cambiare il modo in cui viviamo, lavoriamo e ci connettiamo con gli altri.
Il branding è la logica che rende tutto questo possibile.
E i brand umani sono quelli che, con visione e responsabilità, costruiscono il futuro.
L’estetica: molto più che bellezza
Per un brand, l’estetica è forma e significato. È ciò che permette di comunicare senza parole, di trasmettere valori, identità e emozioni in modo immediato. È la combinazione di elementi visivi, come colori, forme e tipografie, che creano coerenza e lasciano un segno.
Un’estetica curata non serve solo ad attirare l’attenzione, ma a creare connessioni profonde. È la sintesi tra razionale ed emotivo, tra il “chi siamo” e il “come vogliamo essere ricordati”. Non è solo una scelta di design, è una dichiarazione di intenti.
L’estetica di un brand, se ben costruita, non si limita a piacere: ispira, coinvolge e crea fiducia. È il cuore della coerenza visiva e della memorabilità, ma è anche il primo passo verso il significato profondo che vogliamo lasciare nelle persone.
Non sottovalutare il suo potere: è lì che la percezione incontra l’identità.
Non sono sicuro, ma lo scoprirò
Essere umani significa essere imperfetti. Accettarlo non è una debolezza, ma un atto di onestà. Si può essere insicuri e, al tempo stesso, fare della propria insicurezza un motore di crescita. La differenza tra chi guida e chi semplicemente comanda sta tutta qui:
- Non nel nascondere i dubbi, ma nel saperli trasformare in opportunità.
- Non nel cercare risposte assolute, ma nel creare spazio per cercarle insieme.
- Non nel pretendere di essere sempre sicuri, ma nel imparare ad essere saldi anche nell’incertezza.
La leadership non è la fine delle insicurezze. È imparare a camminarci dentro, imparando a non abbandonarci.
Prendiamoci il nostro meritato rispetto
Io ti accolgo: un atto d’amore che oltrepassa ogni barriera culturale, religiosa e di genere.
Io ti accetto: una dichiarazione che riconosce chi ho di fronte senza filtri, senza pregiudizi, con lo sguardo aperto alla conoscenza.
Eppure, c’è ancora chi confonde il rispetto con la riverenza. Quella imposta con la paura. Quella pretesa da chi è al potere, che scende dall’alto e si insinua silenziosa in ogni grado della società.
Questa non è autorevolezza. Non è rispetto. È un veleno che scorre lento, un fendente che ti trapassa e ti lascia senz’anima, consegnandoti inerme agli avvoltoi in attesa.
E nelle aziende verticalizzate e piramidali, questa mentalità è più viva che mai. La tocchi con mano.
Per non soccombere al rispetto imposto, serve carisma e fame di libertà. Serve conoscenza, sicurezza e coraggio. Serve la capacità di indignarsi e farsi riconoscere, per far sì che chi sta apparentemente sopra di noi non ci “conceda” il rispetto, ma ci riconosca per chi siamo, con la dignità che meritiamo.
#Rispetto #Libertà #Leadership #Consapevolezza
Tempo
Il lavoro in rete funziona come il lavoro in ufficio e, per certi aspetti, anche meglio. I nostri incontri settimanali lo dimostrano. Ho l’impressione che fino a ieri ciò che era il “non detto” oggi sia più vivo che mai.
Il mio dovere è creare stabilità, ma non è detto che ci sia sempre riuscito. Perché, in fondo, se non la vivi, come puoi offrirla agli altri?
Penso che questa sia la parte più complessa della vita di un leader: trovare tempo per comprendere, ascoltare e restituire equilibrio.
Il significato al centro del brand
Oggi, più che mai, ciò che guida le scelte delle persone è il significato che trovano in ciò che acquistano, in ciò che vivono, in ciò che scelgono.
Un brand senza significato è come una frase vuota: passa inosservato, non lascia traccia.
Ma un brand che sa comunicare il proprio “perché”, che riflette valori autentici, che si fa portatore di un messaggio, diventa un faro in un mare di scelte.
Il significato è la connessione invisibile tra ciò che offriamo e ciò che le persone cercano davvero. Non parliamo solo di funzionalità o estetica, ma di valori, emozioni e relazioni.
Cosa significa il tuo brand per le persone che lo scelgono?
Questa è la domanda che ogni imprenditore, creativo o comunicatore dovrebbe porsi. Non per rispondere subito, ma per iniziare un percorso. Un percorso che porti dal fare al significare.
Empatia: il cuore del brand
L’empatia non è solo una qualità umana, è una necessità per ogni brand che voglia davvero connettersi con le persone.
Quando un brand dimostra empatia, non sta solo vendendo un prodotto o un servizio. Sta dicendo: Ti vedo, ti ascolto, ti capisco.
Ed è qui che si costruisce fiducia, si genera connessione, si creano relazioni che durano nel tempo.
Empatia significa ascoltare i dubbi, i desideri e le emozioni delle persone, e trasformare tutto questo in soluzioni che fanno la differenza. È il primo passo per costruire un brand umano, capace di entrare nella vita delle persone con la mente e il cuore.
Dicembre 2024
Quando lasciamo andare viviamo la perdita, il rimorso di non aver fatto tutto il necessario, ma, in realtà, ci stiamo donando verso un percorso di conoscenza e consapevolezza nel quale, senza forzatura alcuna, siamo chiamati ad accettare l’impermanenza.
Accettarla significa conoscere (e si spera, far conoscere) la felicità, ma attenzione: armarsi di pazienza, coraggio e forza d’animo è una condizione necessaria, perché questa è una strada sterrata e insidiosa, che va percorsa da soli, a piedi e, a volte, nelle giornate di pioggia senza ombrello e impermeabile.
In questo tragitto bisogna bagnarsi.
Sarà fantastico scoprire poi che la strada non porta a nessun posto oltre noi stessi e ancor più meraviglioso comprendere che la luce che pian piano inizia a scaldarci si chiama felicità, e che, in realtà, ci ha accompagnato durante tutto il cammino.
Auguro a tutti voi un 2025 di consapevolezza, amore e accettazione. Un anno in cui abbiate il coraggio di lasciar andare ciò che non vi appartiene più, per abbracciare ciò che vi rende autenticamente felici. Un 2025 in cui, anche sotto la pioggia, troviate la forza di camminare verso voi stessi, rendendo ogni giornata un’opportunità per essere sempre più voi.
Amarsi
Dovremmo farlo tutti i giorni. Dovrebbe essere una pratica costante, da fissare in una to do list con notifica applicata. Dovrebbe essere un esercizio quotidiano che non esclude festività.
Questo dovrebbe essere – prima di tutto – il nostro lavoro.
I creativi sono degli speleologi
È facile innamorarsi delle proprie idee. Ci capita di aprire gli occhi e chiudere le orecchie. Quando succede perdiamo di vista il motivo per il quale stiamo lavorando.
Siamo chiamati a scoprire la parte più nascosta del brand e a creare consapevolezza.
Lasciamo il marketing a chi non sa fare altro. Il nostro lavoro è scavare nell’intimo per creare percorsi di conoscenza che portano a obiettivi comuni.
Arte e pubblicità
L’arte vive oltre se stessa e oltre l’artista, di cui ne rimane solo il ricordo. La pubblicità sopravvive alimentandosi delle nostre interazioni. Dove l’arte unisce la pubblicità divide. L’arte accetta tutti, senza distinzione di genere, cultura e religione. La pubblicità pensa per gruppi, targetizza, suddivide ruoli e generi.
L’arte conosce le persone, le vuole, ne ha bisogno anche se potrebbe vivere tranquillamente senza. La pubblicità ci studia ma non ci conosce, ci vuole, ha bisogno di noi. Senza non riuscirebbe a sopravvivere.
L’arte ci accetta come esseri senzienti, la pubblicità ci seziona per inscatolarci come i prodotti che prova a vendere.
(Ho detto pubblicità: molto vicina ad un certo tipo di marketing e molto lontana dalla comunicazione e dal Branding)
Prodotto e sottoprodotto del Brand
Gran parte delle aziende che ho conosciuto in questi diciotto anni di lavoro sono imprese nate dal desiderio di fare e di raccontare, attraverso prodotti e servizi, il modo con il quale si distinguono nel mondo.
Certo, le aziende hanno bisogno di fatturare per sopravvivere, ma dovremmo tenere a mente la visione di Olivetti che vede l’impresa non solo come lo strumento per la creazione del profitto individuale ma come motore primario del benessere sociale.
Dovremmo dare importanza a quanto riusciamo ad apprendere, utilizzare e trasferire. È grazie all’esperienza condivisa, accettata e appresa che evolviamo come esseri senzienti, più che a quanto viene sottoprodotto.
Il fatturato è il sottoprodotto del business: parte integrante di un processo produttivo che genera valore, crescita e sviluppo.
Ognuno di noi è un brand
La tesi di Peters, applicabile alla persona quanto all’azienda, ci indica la strada grazie alla quale possiamo raggiungere un’identità unica e distinguibile, ma attenzione: esperienza e competenza non sono gli unici ingredienti. Serve di più.
Questa è la newsletter di novembre 2023. Puoi continuare a leggerla qui
Tempo
Riesci a dedicarmi il tuo tempo?
Questa è la domanda che si è posta Emily Lahey, 31enne australiana che dal 2019 è alle prese con una rara forma di tumore incurabile. Emily non è un’artista ma, nell’esperienza che segue, si comporta come tale.
Lo scorso 17 agosto, negli spazi del centro culturale Carriageworks di Sidney, sviluppa “Time to live“: un progetto performativo che mette all’asta il proprio tempo. In pratica i partecipanti “acquistano” una porzione di tempo di Emily per sedersi accanto a lei e conoscere la sua esperienza. Lo scopo è semplice: sensibilizzare il pubblico sul cancro e sulla ricerca della cura di una delle malattie più orribili di sempre. L’esperienza? Offrire ai partecipanti tre minuti, durante i quali conoscere la sofferenza e le speranze di una malata terminale.
Un grande orologio digitale scandisce lo scorrere dei minuti. Ogni secondo è prezioso, ogni attimo prende peso, ogni lacrima versata, ogni sorriso rubato, ogni abbraccio che apre e chiude l’incontro, qui hanno più significato. In questo spazio Il tempo prende corpo e forza, si allunga fino ad assottigliarsi e sparire. Il tempo annulla il tempo per poi riapparire rinato al suo scadere.
Il tempo è la risorsa più preziosa che abbiamo. Possiamo acquistarlo, venderlo e donarlo, ma non osiamo svenderlo.
Il mio lavoro risiede dove la fiducia incontra il rispetto
Incontrarsi e condividere, unire il fare e l’essere per creare un modello lavorativo umano e sostenibile.
Alzi la mano chi si impegna il minimo indispensabile. Alzi la mano chi assume o ha assunto un atteggiamento accondiscendente. Ci vuole coraggio a farlo e ad ammetterlo.
Prendiamoci la responsabilità di fare il lavoro per il quale abbiamo accettato la chiamata o ammettere che non siamo fatti per questo lavoro.
Non possiamo fingere che va tutto bene
A volte, è meglio prendere le distanze, fermarsi e riflettere su ciò che ci fa battere davvero il cuore.
Quando le certezze iniziano a sgretolarsi, è essenziale ancorarsi ai propri valori. Riprendere il filo conduttore che dà significato alla nostra esistenza. Spesso, è necessario guardare indietro per ritrovare la strada che ci porta avanti.
Ci vuole cuore
Ciò comporta empatia, voglia di fare un buon lavoro e una predisposizione mentale ad accettare che il lavoro che stiamo facendo non è destinato a noi.
Ci vuole cuore certo, ma non commettiamo l’errore di innamorarci dell’idea. Amiamo piuttosto le persone per le quali lavoriamo. Ciò significa restare leali a noi stessi e alla persona che vogliamo essere. Diversamente miglioriamo o lasciamo perdere.
La nostra vita è un capolavoro
Abbiamo bisogno di affermarci e condividere anche quando apparentemente scegliamo di non farlo. Ogni atto genera un messaggio. Questo, seppur nascosto, è destinato a colloquiare com l’altro in un confronto aperto che genera ipotesi, riflessioni, confronti, paure, dubbi e certezze. Di questo processo l’arte ne è la forma.
Un’opera d’arte è tale perché porta con sé l’intenzione dell’artista, generata nel periodo storico in cui vive e nel quale il lavoro viene prodotto. Ciò che chiamiamo arte è il modo con il quale la persona afferma il suo esistere al mondo. In tal senso ognuno di noi può essere artista del proprio tempo.
Seth Godin ha scritto che l’arte è ciò che facciamo quando siamo davvero vivi […] ciò che siamo e ciò di cui abbiamo bisogno.
Ognuno di noi, con la propria vita, è quindi un capolavoro. Imperfetto, a volte deformato dagli eventi, ma sempre e comunque, prezioso. Se l’imperfezione è deformazione, se l’arte è la nostra vita e ognuno di noi è un’artista – citando Bodoni:
la deformazione è un principio fondamentale dell’arte; e la deformazione -come volgarmente si usa dire oggi -non equivale ad abbrutimento. Essendo placido che l’arte non si basa su misure metriche, la deformazione rappresenta l’emozione che il singolo artista ha nei riquardi di una realtà teorica. E la maggiore o minore deformazione di un’opera non equivale certo ad un maggiore o minor pregio artistico.
Gentilezza, autenticità e rispetto
Hai miei figli provo ad insegnare la forza della gentilezza, troppe volte confusa con la debolezza. Provo ad insegnargli che l’umiltà è dei forti anche quando non si applica il porre l’altra guancia. Ho chiesto loro di mettere in pratica il rispetto come la regola più importante. Rispetto verso gli altri che poi significa avere rispetto per sé stessi.
Ho chiesto loro di non perdere mai la bussola dell’autenticità, più facile a dirsi che a farsi e che, quando succede, è possibile sempre ritrovare la rotta, perché darsi una nuova opportunità è un dovere a cui non possiamo mancare.
Prova a guardarti dentro
Questa, a dimostrazione di una coerenza generativa tipica dei brand umani, arriva dopo vent’anni da “Real Beauty“.
Essere un brand umano significa guardarsi all’interno. Un lavoro di introspezione che rispetta il motivo di esistere della marca e la promessa fatta alle persone.
Sceglieresti di condividere la narrazione di un insuccesso?
In un mondo che spesso celebra l’eccezionale al punto da renderlo irraggiungibile, che posto diamo ai nostri insuccessi?
Penso che la nostra storia merita di essere condivisa non perché debba stupire con l’eccezionalità, ma perché è profondamente reale. In questa realtà viviamo anche con gli insuccessi, le delusioni e i momenti di sconforto. Non siamo fenomeni, né dovremmo aspirare ad esserlo. I fenomeni, in realtà, non esistono. Siamo esseri umani, imperfetti e unici, che trovano forza e coraggio nella condivisione delle proprie esperienze di vita, nella condivisione delle proprie imperfezioni.
È nella nostra capacità di essere vulnerabili, di offrire generosamente un pezzo di noi al mondo, che risiede il vero valore.
Condividere il proprio essere, con tutto ciò che comporta, ci rende indispensabili.
La nostra storia, con i suoi punti deboli, ha il potere di ispirare, confortare e guidare. Chi ha il coraggio di condividerla tutta?
Budweiser®: un brand un carne e ossa
I brand sono storie in carne ed ossa. “Born The Hard Way” è lo spot della Budweiser® che celebra la storia di Mr Buch e – indirettamente – di tutti quei Brand che si distinguono, perché guidati da persone che scelgono e agiscono con coraggio e determinazione.
Il mio lavoro è anche quello di mia moglie
In ogni decisione lavorativa che prendo, sono consapevole che non riguarda solo me, ma anche la mia famiglia. Il lavoro fuori casa porta con sé una redistribuzione dei compiti e delle responsabilità, trasformando ogni mio sacrificio in un impegno doppio che coinvolge mia moglie e i miei cari.
È fondamentale, quindi, riconoscere e valorizzare ogni forma di lavoro, visibile e invisibile, che contribuisce al benessere della famiglia. La condivisione delle responsabilità rafforza il legame e ci ricorda l’importanza del supporto reciproco.
Ogni scelta lavorativa è anche una scelta di vita, che riflette i nostri valori e l’impegno verso chi amiamo.
Abbiamo bisogno di umanità. Quanto è umano il tuo brand?
Essere un Brand umano significa creare prodotti, servizi, sistemi, opere capaci di migliorare il nostro modo di vivere il mondo. Lo human branding è la logica grazie alla quale il tutto diventa possibile. Questa è la newsletter di ottobre 2024. Continua a leggere
Crearts evolve e diventa Varavallo
In questi anni, stringendo relazioni professionali e personali, ci siamo ritagliati una piccola ma importante fetta di mercato. Per questo motivo continuo a credere che la passione e l’autenticità sono sentimenti necessari per sviluppare progetti di cui essere orgogliosi. Continua a leggere
Bisognerebbe partire dal perché
Bisognerebbe spiegare non tanto quello che facciamo o come lo facciamo ma chiedersi e motivare il perché lo facciamo.
Bisognerebbe cercare e tenersi strette le motivazioni che muovono il nostro lavoro perché queste sono direttamente collegate al nostro stare al mondo.
Non può essere solo una questione di soldi.
Se fosse così saremmo come il wc d’oro di Cattelan: bello, funzionante, pesante, ricco, da vendere, rubare ed esporre, prezioso, forse unico, ma sempre e comunque vuoto.
I coraggiosi
Quando senti il pavimento sgretolarsi sotto i piedi, guardarsi attorno e scoprire che non sei solo può essere confortante, ma, restare immobile, non ti salva la vita.
Muoversi per mettersi al sicuro in spazi più soldi e ancorarsi verso chi si trova lì per te non significa essere vigliacchi.
I coraggiosi sono quelli che conoscono i propri limiti e che, nei momenti difficoltà, sanno quando chiedere aiuto.
Questo è quanto ho imparato. Questo è quanto insegno ai miei figli.
Come riusciamo a confermare le partnership?
Disponibilità personale, qualità professionale e risultati concreti possono essere gli elementi che compongono una partnership da consolidare nel tempo. Il fatto è che possiamo essere i più bravi, i più competenti e i più disponibili, ma quando smettiamo di offrire quello di cui hanno bisogno viene meno la fiducia, la serenità lavorativa e poi la partnership.
Le persone che scegliamo di servire hanno bisogno di noi, della nostre capacità, delle nostre competenze, della nostra esperienza e soprattutto del nostro cuore.
Ascolto, dedizione e soluzioni concrete sono un buon modo per dare ai nostri referenti quello di cui hanno bisogno. Un fare che è parte del nostro lavoro. Amiamolo e ameremo la vita che abbiamo scelto di vivere.
A volte ci capita di sbagliare, errare è umano, ma quando è ripetuto nel tempo è sintomo di disamore che è sinonimo di inefficienza.
Afferriamo l’opportunità di fare con amore il lavoro per il quale abbiamo accettato la chiamata. O prendiamoci la responsabilità di ammettere che non siamo fatti per il nostro lavoro.
Se scegliamo la prima versione di noi, possiamo adoperarci per essere utili e costruire partnership di successo.
Il lavoro più importante (riflessione ad alta voce)
Mio padre era un poliziotto di strada. È stato sovrintendente capo. I suoi gradi li ha ricevuti per meriti, rischiando la vita ogni giorno. Da piccolo pensavo che fare il poliziotto fosse il lavoro più importante del mondo.
Poi, verso i quattordici anni, mi sono appassionato al disegno e poi alla pittura. A ventiquattro, terminata l’Accademia di Belle Arti, mi sono trasferito a Torino e ho scoperto che, il più delle volte, giacca e cravatta contano più di quello che dici.
Facevo il venditore porta a porta, un lavoro poco importante. In strada, tra un contratto e l’altro, ricordavo con nostalgia di quando ero ragazzino e le giornate di lavoro con i miei zii.
I lavori più importanti si fanno sudando. Nei lavori più importanti ci si sporca le mani. Pensa al chirurgo, all’infermiere, al muratore, all’agricoltore, al pittore e allo scultore, all’artigiano e al poliziotto.
Poi ci sono quelli diversamente importanti.
Pensa al padre o alla madre che, non avendo scelta, lavorano sottopagati sette giorni su sette. Pensa ai licenziati sostituiti da sistemi che ottimizzano i costi. Pensa al lavoratore morto sul lavoro, che di bianco ha la pelle e quella dei suoi cari dopo la notizia.
Il poliziotto, soprattutto quello di strada, è un lavoro per il quale si rischia la vita, mio padre lo sapeva e un po’ anche noi. Se lo vedi uscire ogni giorno con la pistola, te li fai due conti. Ma gli altri?
Su cadutipoliziadistato.it si legge che dal 1981 al 2023 sono morti 456 poliziotti. Escludendo questi, da anni sappiamo che in media muoiono 3 lavoratori/lavoratrici al giorno. Più di 1000 morti l’anno.
Qual è il lavoro più importante?
Diventare cosa vogliamo essere facendo
Possiamo imparare a scrivere ma non è detto che saremo degli scrittori. Possiamo imparare a disegnare e a dipingere, possiamo perfino definirci pittori o scultori, ma non è detto che saremo visti come artisti. Possiamo imparare a suonare la chitarra, il piano o il sassofono ma non è detto che saremo dei musicisti. Possiamo nascere con una bella voce, perfino avere le corde vocali di un basso puro, ma non è detto che riusciremo un giorno a cantare al San Carlo.
Possiamo essere quelli che siamo e non è detto che possiamo essere quelli che vogliamo essere. Ma siamo noi! Nello spazio che separa il fare dall’essere o l’essere dal fare ci siamo noi e nessun altro. Un noi unico è distinguibile che, seppur estraneo dalla notorietà, trova nell’espressione dell’essere il vero successo.
Poi ci sono casi nei quali l’espressione del proprio essere ci apre percorsi che mai avremmo potuto immaginare. Van Gogh, in una delle 668 lettere spedite al fratello Theo scrive: voglio che la gente dica delle mie opere … sente profondamente, sente con tenerezza. Van Gogh ha realizzato più 900 opere e incalcolabili disegni. Nei suoi 10 anni di attività ha prodotto, in media, un’opera ogni 36 ore. Un fare instancabile che è espressione di sé.
Maud Lewis (della quelle potete trovare il film su Netflix) è un’artista canadese che, in estrema povertà e con un artite reumatoide giovanile, dipinge instancabilmente su qualsiasi superficie, diventando, subito dopo la sua morte, una delle artiste meno famose ma più incisive del 900. Maud ha venduto per anni i propri lavori a pochi centesimi e solo tra il 1945 e il 1950, oramai nota ai più, le persone si fermano sulla Highway al civivo 1, il luogo dove abitava, per acquistare le sue opere a 7, 9 dollari.
Maud Lewis è stata un’artista che ha lavorato tantissimo perché aveva necessità di farlo. Il suo fare era l’espressione del suo essere. Il suo modo di essere è stato anche farsi trovare lì, al suo indirizzo, nel luogo dove le persone si fermavano per acquistare le sue opere.
Dopo l’esplosione nel porto di Beirut del 4 agosto 2020, un’anziana signora si siede al piano ed esegue Auld Lang Syne: canzone tradizionale scozzese. Nel 2022 a Kiev, una donna rientra nella casa bombardata per suonare il suo pianoforte.
Non possiamo sfuggire da quello che siamo. Quando il tutto ci appare incasinato, quando quello che ci circonda ci appare distrutto, quando la nostra vita sembra sgretolarsi dal pavimento, dobbiamo continuare a fare quello che amiamo fare e farci trovare al nostro posto, sensibilmente reattivi e ordinariamente proattivi.
Utili
Possiamo essere la mucca viola tra le mucche marroni, il fiore bianco in un mazzo di fiori rossi, ma quanto siamo utili?
Ci serve un motivo che nasce nel fare. Un fare generoso, per niente accondiscendente, monco da qualsiasi obbligo. Un fare che cresce dentro, che – ceduto a pochi eletti – possa risolvere e migliorare le cose. Utile significa offrire il nostro contribuito personale per generare un lavoro che funziona. Utile significa farci trovare al nostro posto, perché è lì che vogliamo stare. Una scelta incondizionata che vede nel voler fare l’unica sicurezza possibile.
Un atleta si allena otto e più ore al giorno perché vuole farlo. L’artista dipinge costantemente con passione e volontà d’esercizio per anni. Lo scrittore scrive instancabilmente a qualsiasi ora del giorno e della notte. Abbandoniamo il dovere del fare e rendiamo il nostro lavoro utile e disponibile mediante una pratica costante e diffusa che accresce le nostre abilità messe al servizio di chi le merita. Questo funziona solo se amiamo quello che facciamo, se mentre lo facciamo ci sentiamo bene e se lavoriamo con rigorosa costanza.
Riconoscibili
Se sei insostituibile sei unico. Se sei unico sei riconoscibile.
Essere unici e riconoscibili significa assemblare le nostre competenze professionali con le nostre convinzioni personali. Ciò prevede che il nostro lavoro debba essere parte di noi.
Mettere noi all’interno del nostro lavoro, con i nostri valori, le nostre convinzioni e perfino le nostre palpitazioni, è un’opportunità che non possiamo perdere, perché ci rende distinguibili. È per questo motivo che la riconoscibilità è utile anche in fase di comparazione e i brand lo sanno da tempo. Posso considerare più sicura una sedia Foppapedretti rispetto una buona sedia di legno.
La riconoscibilità di marca offre garanzie, ma poi bisogna mantenere le promesse. Mantenerle significa essere – con continuità – l’elemento dissimile di un insieme che contraddistingue un genere.
Sono un Copy, un designer o un idraulico, parte di un genere che mi vuole simile agli altri, ma posso essere il fiore bianco o la mucca viola se, con le mie competenze professionali e i miei valori personali, risulto la versione migliore tra le alternative trovate dalle persone che scelgo di servire.
Raggiunto il risultato bisogna mantenere la partnership.
Insostituibili
È il nostro obiettivo. Essere insostituibili ci pone, rispetto ai nostri competitor, in una condizione di privilegio. E il privilegio è tutto a vantaggio dei nostri clienti.
Come riusciamo ad essere insostituibili?
Dobbiamo posizionarci dall’interno di un genere evitando qualsiasi collocazione di genericità. Semplice a dirsi e anche a farsi se siamo disposti a farlo. Il lavoro è sostituibile, ma il nostro, inserito all’interno di un genere ben definito, se riconosciuto, se fa la differenza, diviene prezioso al limite dell’insostituibilitá.
Come facciamo la differenza?
La riconoscibilità è un fattore determinante. L’unico modo per essere riconoscibili è vivere il nostro lavoro dall’interno, assemblare le nostre competenze professionali con le nostre convinzioni personali.
Come essere riconoscibili lo approfondisco nel prossimo post.
Come ti vedi nel tuo orticello?
Ognuno di noi costruisce il proprio orticello fatto di successo, benevolenza, ricchezza, altruismo, appagamento o sfruttamento.
C’è chi, nel proprio orticello, può mettersi comodo, lasciare che il tempo passi e scoprire se è abbastanza grande per tutti coloro che ama. In questo c’è chi si alza presto per curarlo fino a tardi. C’è chi ne acquista tanti, lasciando che gli altri facciano il suo lavoro o chi si sporca le mani con l’ultimo arrivato; il primo ad entrare e l’ultimo ad uscire.
Possiamo lavorare e regalare il risultato del nostro raccolto, augurandoci di ricevere lo stesso quando riposiamo perché troppo stanchi. Possiamo recintarlo e non accettare nessuno, perché tanto siamo di quelli che è meglio da soli che in cattiva compagnia. Possiamo insegnare quanto abbiamo imparato o condividere i frutti del nostro raccolto.
Possiamo offrirci come braccianti e lavorare per un piatto di riso o offrire il nostro contributo e suddividere i risultati. Possiamo essere quelli che riuniscono le persone per progettare idee e costruire sogni. Quelli che urlano col cuore. Quelli dallo sguardo fiero e generoso, che piangono quando l’idea condivisa diventa materia, decisione, azione e risultato.
Possiamo essere quello vogliamo, ma la scelta determina il nostro essere e – di riflesso – il nostro esistere: guardare il nostro orticello che cresce o ammirare le persone che si prodigano per fare ciò che questo accada.
Brand che sfidano lo sdegno degli imbecilli
Siamo simili ai nostri brand e non potrebbe essere altrimenti. Scegliamo il prodotto del brand che amiamo perché lo sentiamo nostro. Gli siamo così affini che senza di esso potremmo non essere completamente noi. Ci riempie, ci fa star bene la sua forma,il suo colore, la sua funzione, la sua musicalità, il suo profumo.
Poi capita di seguire un brand per i suoi valori sociali, etici e morali. Ci capita, ad esempio, di imparare ad amare quel brand che pubblicizza lengirie da donna indossati da un uomo. Brand che sfidano lo sdegno degli imbecilli, brand che, se sei di quelli che vogliono cambiare gli stereotipi, non puoi non amare, seguire e sostenere.
Siamo la residenza dei nostri valori
Sei stato lo studente o la studentessa che si è alzata ogni mattina per studiare, superare gli esami e raggiungere il lavoro agognato. Oggi credi di essere semplicemente uno dei tanti lavoratori o delle tante lavoratrici che si alza ogni mattina per lavorare, guadagnare e vivere.
Se pensi che qualcosa sia andato storto ti sbagli di grosso.
Ho frequentato il liceo artistico e l’accademia di belle Arti di Napoli. Ho studiato per anni sapendo che avrei fatto l’artista; quello che espone negli spazi che contano, quello che è parte del sistema dell’arte, quello che realizza opere da centinaia di migliaia di euro. Non è stato così, ma è andata comunque bene.
Non mi sto accontentando e non sto giustificando un insuccesso. Sto dicendo che le strade per raggiungere i propri traguardi posso essere diverse, ma questi nel tempo non cambiano. Possono mutare nella forma ma non nella sostanza.
Il tempo ci cambia: siamo diversi dalle persone che eravamo ieri e saremo diversi da quelle che saremo domani, ma il nostro desiderio di esistere nel fare rimane lì, sempre vivo, luminoso e coinvolgente. Chiedete a chi vi ama se riuscirebbe ad immaginare una vita senza di voi. Di sicuro non sarebbe felice come oggi. Chiedete adesso se prima di conoscervi immaginava proprio voi. Penso proprio di no. Il più delle volte alcune strade che percorriamo non sono quelle che abbiamo desiderato, eppure abbiamo imparato ad amare le destinazioni, soprattutto quelle inaspettate.
Siamo le destinazioni che meritano le persone che amiamo, quelle che restano al nostro fianco comunque vada.
Non siamo semplicemente quelli che si alzano la mattina per lavorare, guadagnare e vivere. Noi non siamo il lavoro che facciamo. Siamo il valore che offriamo attraverso il lavoro che scegliamo di fare. Se noi contiamo il nostro lavoro conta. Se ci attribuiamo valore trasferiamo valore.
Se non sei convinto chiedi a chi ti ama.
Sei dipendenti su dieci lavorano senza passione
Secondo Gallup il 59% dei dipendenti a livello globale fa il minimo indispensabile.
In quale parte ti riconosci?
Sei persone su 10 lavorano con svogliatezza, senza obiettivi e senza passione. I dipendenti sanno quello che fanno, sanno come farlo ma non sanno perché lo stanno facendo. Uno dei motivi che li tiene a lavoro è lo stipendio. Quando non basta anche quello, smettono silenziosamente. Stress, malcontento e apatia sono le criticità da risolvere a monte. Di chi è la colpa? Le nostre organizzazioni hanno bisogno di significato. Noi tutti abbiamo bisogno di significato. Il consiglio di Gallup è chiaro: Cambia il modo in cui vengono gestite le tue persone. Va bene, ma bisognerebbe ascoltare anche l’altra campana. Perché qua di persone si tratta, nell’uno e nell’altro caso. Bisognerebbe iniziare a parlare. Una riflessione apparentemente molto semplice, ma di difficile applicazione. In Italia esistono aziende così verticalizzate che ricordano il Buco di Gaztelu-Urrutia.
Il report qua
Cosa vedi quando ti guardi allo specchio?
Cosa vedi quando ti guardi allo specchio? Ti riconosci per quello che sei o per quello che rappresenti?
Il tempo ci costringe a cambiare, ci rende più forti o più deboli, più gentili o più arroganti, più emotivi o più distaccati. Il fatto è che non ci conosciamo per davvero: la persona che eravamo ieri è diversa da quella di oggi e sarà differente da quella di domani. Le motivazioni però rimangono le stesse. Possiamo percorrere strade differenti, così come differenti possono essere i modi per raggiungere i nostri traguardi, ma questi restano sempre lì, immutabili e bellissimi come gli occhi delle persone che amiamo.
Siamo esseri imperfetti e a volte ci capita di sentirci inutili. A me capita. Sentirsi utili è una necessità, ci mantiene vivi. Essere utili significa produrre e il risultato del prodotto, al di là della sua funzione, è la gratificazione di aver fatto bene per se stessi e, il più delle volte, per coloro a cui teniamo.
Cosa vedo quando mi guardo allo specchio è il risultato del mio lavoro ottenuto dallo sguardo amorevole di chi mi sceglie comunque vada.
Un altro modo di vedere il successo.
Quando scegliamo la persona con la quale lavorare, non limitiamoci semplicemente al più bravo
Ognuno di noi ha peculiarità specifiche che lo rendono unico per differenziazione. La nostra unicità la mettiamo al servizio della nostra professione che è solo verosimile a quella degli altri. Io sono un brand manager, ma non come gli altri brand manager. Se fosse così, la scelta, soprattutto quella ripetuta, cadrebbe sul costo rapportato a specifiche competenze. Quando scegliamo la persona con la quale lavorare, non limitiamoci semplicemente al più bravo, questo cambia nel tempo ed è parte di un tutto molto più complesso. Io voglio la persona che sceglie di aggiungere alle competenze professionali il proprio contributo personale.
Sostituibili, ma non così facilmente
Non siamo ingranaggi di una macchina, quelli che in fabbrica sostituisci facilmente. Siamo persone necessarie perché generose e competenti. Ciò ci rende insostituibili come un chiodo invece di un fischer o un giravite al posto di un Black and Decker. Non siamo chiamati a realizzare un buco nel muro, ma a capire perché e dove realizzarlo. A scegliere la punta più adatta e la giusta profondità. Siamo sostituibili certo, ma non così facilmente.
Il brand è una storia in carne ed ossa
E non mi riferisco al grande brand, quello dal fatturato a nove zeri. Io ho conosciuto anche quelli diversamente grandi. Il mio lavoro, come la mia vita, deve costantemente nutrirsi di sentimenti positivi. I miei incontri vanno ben oltre quelle relazioni di business da coltivare per forza. Ascolto e condivido, provando ad essere sempre leale con me stesso e con la persona che voglio essere. Il brand umano, grande o piccolo che sia, è una storia in carne e ossa. Fragile e implacabile, desiderosa e incompleta, perspicace, affascinante e visionaria. Più del 90% delle aziende italiane sono piccole e medie imprese nate nel desiderio di fare. In quelle più longeve il desiderio è sempre rimasto lì. Immutato e immutabile. In questi anni ho avuto la fortuna di incontrarne alcune. Piccoli brand fatti persona.
Ogni organizzazione dovrebbe essere a struttura circolare
La mia famiglia ha origini contadine. Vivo nello stesso ambiente dove quarant’anni fa i miei nonni, con i miei zii e mia mamma, lavoravano il tabacco. Ricordo il rumore della cucitrice e dell’ago che infila lo stelo della foglia. Ricordo il profumo del tabacco appena colto, le galline nel cortile, Jimmy – il cane di nonno – e i gatti di mia nonna. Ricordo le donne e gli uomini che, passando davanti casa, si fermavano a chiacchierare. Per chi chiunque mio nonno aveva sempre un bicchiere di vino bianco. Durante la giornata di lavoro, ognuno conosceva i propri doveri e nessuno diceva a qualcun altro cosa fare. Neanche il nonno. Ogni organizzazione dovrebbe funzionare così. Ognuno libero di decidere il proprio tempo e il proprio spazio – secondo specifiche esigenze del gruppo – parte di un insieme coeso. Ogni organizzazione dovrebbe essere a struttura circolare, nella quale ogni individuo conosce la propria parte e si impegna nel realizzarla al meglio, sapendo di contribuire alla riuscita di chi lo precede e di chi lo succede.
Siamo esseri umani: imperfetti e bellissimi o perfetti e pericolosi
Sono imperfetto come un albero, come la natura che ci invita a restare fedeli ai nostri principi.
Siamo esseri umani: imperfetti e bellissimi o perfetti e pericolosi. Siamo imperfetti come l’arte degenerata, come le pennellate sgrammaticate di Van Gogh, le ninfee di Monet, la colazione sull’erba di Manet, i paesaggi di Turner, le donne di Picasso, le forme di Malevic, le cancellature di Isgró, le pitture nere di Goya.
L’imperfetto ricerca, studia, sperimenta, scrive e disegna. Immagina mondi possibili. La perfezione cancella, distrugge, si muove per sottrazione. Divide e non condivide. Moltiplica e sottrae. L’imperfezione aggiunge. È accogliente. Comunica. La perfezione ordina.
Puoi scegliere di essere imperfetto e unico, o perfetto, replicante e pericoloso. Come lo stile pittorico di Hitler, rigido e privo di immaginazione, pregno dell’ideologia della razza ariana e lontana dal principio di accoglienza e di integrazione etnica. Siamo ancora al bivio. Per fortuna ne siamo in tanti.
Siamo tutti sostituibili
Dal supermegamanager al manuale. Le persone sono sostituibili. Tutte, nessuna esclusa. Possiamo lavorare sul tempo di permanenza, considerando il come e non il quanto. Dobbiamo lavorare sul come reagiamo al cambiamento.
Il cambiamento avviene quando persone coese, distribuite circolarmente, cooperano verso comuni obiettivi. In questo cerchio possiamo scegliere di essere comparse o protagonisti. Tutto dipende da noi, da come ci poniamo verso gli accadimenti.
Anche i brand sono sostituibili. Posso sostituire la Ceres con una Tuborg o l’Audi con la BMW. Per poi ritornare alla Ceres o all’Audi.
Può essere una questione di costo, ma non è sempre così semplice. Si tratta di esperienza, di vicinanza, di sentimenti. Ma, a volte, non è così semplice. Può essere semplice se si tratta di persone.
La delicatezza non è per il maschio contemporaneo.
La delicatezza non è per il maschio d’oggi. Per il maschio contemporaneo.
La delicatezza è l’opposto della virilità. Se sei virile non sei delicato. Se sei delicato sei omosessuale. E per alcunə è un problema. Fai parte di quella minoranza fastidiosa che, a dir di qualcuno, va odiata e spremuta come un brufolo sulla faccia.
La delicatezza, come la gentilezza, è contestabile, viene confusa con la debolezza e l’insicurezza. Se sei debole e insicurə sei il bersaglio perfetto dell’ignoranza. Questa non si muove mai da sola, la trovi sempre in compagnia dall’arroganza, dalla prepotenza e dalla cattiveria. Insieme colpiscono dirette al cuore per metterti a terra in un batter d’occhio.
La delicatezza non è per il maschio d’oggi. Se sei solo e vai avanti, sei un vincibile combattente. Coraggioso e implacabile, hai bisogno di alzarti per non perire.
Cambiare il Mondo: il Pensiero Orizzontale
Siamo nell’era del cambiamento. Cambia il nostro modo di pensare, vivere e agire. Bisogna scegliere se esserne protagonisti, comparse o spettatori. Se guidarla, guardarla o subirla.
C’è chi tenta di portare all’interno dell’organizzazione lavorativa ideali che fino a poco tempo fa teneva per sé. I valori delle persone, per la prima volta, entrano di diritto all’interno delle aziende.
Umane risorse non risorse umane.
Siamo in un nuovo umanesimo e ciò accade giusto in tempo. Così come il lavoro è parte di una vita da vivere appieno, senza restrizioni di tempo e di spazio, così la verticalizzazione è parte di un pensiero industriale oramai al tramonto. La strada da percorrere è il pensiero orizzontale a struttura circolare.
La persona per le persone.
Le api, ricorda Godin, si sono evolute sviluppando una comunicazione fra pari. La voce tra simili si diffonde orizzontalmente. Ognuna, col proprio compito, collabora per il benessere del gruppo. Si stringono e tremano per raggiungere la giusta temperatura e fanno spazio se devono raffreddarsi.
Lavoriamo per essere persone migliori. Come le api, coesi più che uniti, per una vita da vivere con dignità e rispetto, per la sopravvivenza di tutti. Nessuno escluso
Siamo parte di una folla sterminata di persone disidentiche e straordinariamente imperfette.
Possiamo esserne la voce e l’orecchio. Possiamo salire sul piedistallo e all’occorrenza scendere e fare posto. Senza umiltà non c’è progresso.
Siamo il fulcro del tutto: un sistema sofisticato, mutabile e malleabile, che – per funzionare – necessita di dedizione, perseveranza, umiltà, rispetto e amore.
Restiamo umani scriveva Vittorio Arrigoni. Concediamoci l’opportunità di preservare le differenze. È nel diverso che riusciamo a trovare noi stessi. Abbracciamo il coraggio di percorrere queste strade inesplorate, di conoscere le persone che – all’apparenza – non ci piacciono, quelle lontane da noi. Proviamo ad avvicinarci. Allunghiamo la mano. Guardiamoli negli occhi. Ascoltiamoli.
Troviamo il coraggio di vivere il nostro tempo nel tempo di chi possiamo imparare ad amare.
Le imprese verticalizzate sono attrattive
Creano fascino e ricchezza, status e importanza tra simili. Ma vogliono qualcosa in cambio. Ci chiedono la risorsa più preziosa che abbiamo da offrirgli: il nostro tempo. Cadenzato, scansionato, processato, prevedibile e, all’occorrenza, mutabile. Nelle imprese verticalizzate siamo disponibili, obbedienti e misurabili. Diversamente accondiscendenti e falsamente felici. La carriera è quanto ci interessa, così come i desideri prodotti che dobbiamo acquistare.
Prova a chiedere all’artista, al poeta, al romanziere, al contadino, al creativo, al pescatore, allo storico, allo scienziato, allo speologo, al ricercatore – ad esempio – se cambierebbe lavoro (se cambierebbe vita). Questi producono cultura, innovazione, bellezza e desiderio di fare e essere; un percorso circolare che considera la persona il fulcro di una crescita leale e sincera. L’unico possibile.
Per favore
Lo dico spesso, quasi sempre. Lo considero parte di me, un atto di gentilezza. Non riesco a chiedere nulla se non appoggio alla richiesta il mio per favore. Che sia verbale o scritto. Essere gentili è un dovere e uno stile di vita.
Guai a confondere la gentilezza con la debolezza. E la sicurezza con l’arroganza. Bisognerebbe correre ai ripari, perché, In entrambi i casi, siamo destinati a fallire
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Il lavoro è un’esigenza
Senza il mio lavoro io mi sento vuoto. Il lavoro è una necessità da colmare perché si pone a conferma della mia esistenza. Io esisto. Una dichiarazione di indipendenza che prevede una missione: oltrepassare i confini dell’egoismo e le frontiere dell’impossibile. Io esisto, quindi io posso. Posso cambiare le cose, posso migliorare quello che vedo e immaginare un vissuto possibile e ordinario. Abbandoniamo l’esigenza di crearci una vita straordinaria. L’amore è gioia e spasimo: entrambi fanno parte di una vita ordinaria e felice. Abbandoniamo l’idea del tempo come un insieme di spazi rigidi, inscatolati, etichettati e pronti all’uso. Costruiamo un tempo liquido e multiforme nel quale, grazie al nostro lavoro, possiamo sorprenderci e sorprendere. Il nostro lavoro è il riflesso del nostro porci al mondo. Non ci resta che decidere da qualche parte stare. Guidare ed essere guidati: uno scambio equilibrato che crea emancipazione e opportunità. O obbedire e soccombere al tempo, allo spazio che viviamo e alle persone che incontriamo.
Non importa essere il migliore, ciò che conta è distinguersi
Abbandonate l’idea di voler essere migliori, aspirando ad essere percepiti come unici e insostituibili. Il successo commerciale del vostro servizio e della vostra marca risiede nella sua straordinarietà, ossia nella volontà di porsi in luce rispetto agli altri grazie a specifiche capacità che vi rendono interessanti per differenziazione. Ciò non significa dimostrare di essere migliori del vostro competitor, ma comprendere e far comprendere in cosa si riesce meglio.
Essere coesi è molto più che essere uniti.
L’unione, seppur democratica, genera dibattito e maggioranza decisionale. La coesione, invece, travalica gli interessi personali, pensa per equità, mescola elementi presi con uguale peso, consistenza e quantità per produrre il nuovo. La coesione è come un colore creato dalla tavolozza di un pittore. Il bianco, ad esempio, si ottiene mescolando i colori primari presi nella stessa quantità. La quantità maggiore, seppur minima, di un singolo colore, o l’assenza di uno di questi, otterrebbe un risultato diverso, impuro, squilibrato. Se pensiamo a quanto sta accadendo in Ucraina, ad esempio, possiamo riflettere su come il popolo ucraino, seppur multiculturale, multietnico e multireligioso sia unito nella stessa bandiera e nuovamente coeso nell’affrontare l’invasione russa; e su come i russi, seppur appartenenti alla stessa bandiera, siano disgiunti nel conflitto. L’unione genera appartenenza, la coesione genera partecipazione attiva e, gran parte delle volte, proattiva.
In cosa riesci meglio?
Nel 2003 Seth Godin scrive “La mucca viola”, un libro dal titolo curioso quanto interessante, che pone interrogativi – anticipandone le attuali certezze – sugli aspetti più convincenti del marketing contemporaneo. In estrema sintesi, secondo Godin, il successo commerciale del prodotto, del servizio o della marca che lo commercializza risiede nella sua straordinarietà, ossia nella volontà di porsi in luce rispetto agli altri grazie a specifiche capacità che lo rendono interessante per differenziazione.Ciò non significa dimostrare di essere migliori del proprio competitor, ma comprendere e far comprendere in cosa si riesce meglio.
Essere riconoscibili significa dotare il tuo prodotto e il tuo servizio di occhi da guardare e mani da stringere con soddisfazione.
In comunicazione, soprattutto in ambito B2B, per acquisire riconoscibilità è necessario proiettare l’interlocutore verso una dimensione relazionale che è tipica di quelle aziende che considerano l’empatia e il feeling valori indispensabili per il potenziamento del business. Essere riconoscibili significa dotare il tuo prodotto e il tuo servizio di occhi da guardare e mani da stringere con soddisfazione.
Non mi piacciono i primi della classe, quelli che credono di sapere tutto e meglio
In passato le persone erano facilmente influenzabili dalle campagne pubblicitarie e le aziende offerenti poche attente ad ascoltare i reali bisogni – o i desideri – degli acquirenti. Oggi le marche devono saper ascoltare e offrire soluzioni inclusive modellate sulle esigenze del singolo. La comunicazione dev’essere partecipazione, coinvolgimento e soprattutto quel rapporto paritario e paritetico che necessità di umiltà.
Il tuo progetto è la tua creatura e in quanto tale è dotata di sentimenti. Tu chiamali anche creatività.
La creatività è un’esigenza. Lo sanno bene gli artisti, i creativi in genere, ma anche gli imprenditori. Cos’è un’azienda se non un progetto imprenditoriale che nasce dall’intuizione creativa? E come riesce a crescere e a rigenerarsi se non attraverso stimoli emotivi e idee nuove? Antonio Damasio, ne “L’errore di Cartesio”, spiega che non siamo macchine pensanti che si emozionano, ma macchine emotive che pensano. Che tu sia un pubblicitario, un comunicatore, un consulente, un’artista, uno scrittore, un manager o un imprenditore, il tuo progetto è la tua creatura e in quanto tale è dotata di sentimenti. I sentimenti non sono solo parte integranti del modo di operare della ragione, ne sono il completamento e la condizione necessaria per il successo del tuo progetto. Tu chiamali anche creatività.Il successo del nostro lavoro è la “produzione artigianale” di sentimenti positivi imprevedibili
Possiamo pianificare, organizzare e prevedere, ma dietro l’angolo l’imprevisto è sempre in agguato. L’imprevisto é negativo, lascia l’amaro in bocca, rompe i piani e ostacola il successo. L’imprevedibile invece, è quello di cui abbiamo bisogno. L’imprevedibile é l’inaspettato e non il disatteso. L’imprevedibile non delude le aspettative. Le enfatizza. L’imprevedibile è il risultato positivo e crescente del moto casuale di tre interazioni: apprezzamento, esperienza e coinvolgimento. La combinazione di questi elementi genera quello che Kotler definisce “momento WOW”. Di che intensità è la sorpresa dei tuoi clienti quando vivono il tuo prodotto o il tuo servizio? L’intensità del risultato esperienziale è tanto imprevedibile quanto meraviglioso e personale. Il consiglio è lavorare sulle singole emozioni. Il successo del nostro lavoro è la “produzione artigianale” di sentimenti positivi.
Agire
Se vogliamo cambiare le cose, se vogliamo migliorarci, se lo vogliamo davvero allora dobbiamo agire. Qualsiasi azione sana che ci apprestiamo a compiere porterà benefici a noi e a chi crede in noi. Concordi? Ne sei consapevole? Lo vuoi? Alzati e inizia a cambiare quello che non ti piace. Essere consapevoli è utile. Agire è necessario.
Il branding funziona quando coinvolge le persone giuste
Sei di quelli che non ha beneficiato del branding? Non rinunciarci, ma cambia le persone. Sei un marketer onesto e competente che non riesce ad offrire risultati all’azienda per la quale lavora? Prova a cambiare il team di lavoro o, in ultima analisi, cambia azienda. Il branding funziona quando i marketer che funzionano lavorano con le persone giuste. Si tratta di unire le persone felici di lavorare insieme e orgogliose dei risultati raggiunti.
Marche, storie e status
Le marche ci offrono l’opportunità di creare storie capaci di divulgare il nostro status. Scegliamo un prodotto o un servizio di marca perché lo sentiamo nostro; gli siamo così affini che senza di esso non potremmo essere completamente noi.
Le storie di marca hanno la capacità di creare quella continuazione comunicativa che attraverso l’acquirente diviene generativa. Ponendosi tra la marca e il suo cliente, la narrazione di marca contribuisce a raccontare l’uomo e il suo modo di distinguersi nel mondo.
Le marche stabilizzano una propria riconoscibilità che cresce su specifiche caratteristiche tese a definirne l’unicità
Questa logica considera il minimo mercato sostenibile l’unico spazio da occupare. Non puoi indistintamente rivolgerti a tutti e non serve trasformare la persona in cliente. È necessario considerare la persona che ti sceglie come un tuo conoscente, un tuo amico e perfino il tuo confidente. È importante coinvolgerlo all’interno del tuo gruppo di ascolto e considerarlo parte di un sistema – il tuo – che si nutre della sua presenza.
Agisci col cuore
Non mi dire che sei di quelli che considerano lo status sociale verticale una priorità? Posizionarsi in alto, primi tra i primi? Io preferisco il confronto orizzontale, quello paritetico, quando ci si guarda negli occhi e si decide insieme. Quando il confronto é prima di tutto emozionale. Quando il cuore e il cervello sono ben allineati e sei pronto a fare un passo indietro per dare spazio, o quando sei pronto a fare un passo in avanti e allungare la mano.
Un invito ad amarci, ad amare il nostro lavoro, il cliente che ci proponiamo di servire e la persona che vogliamo essere
Tempo fa scrivevo di mio padre, di come mi abbia insegnato che è importante concedere una nuova opportunità. Tutti ne abbiamo bisogno. Infondo, concedere una nuova opportunità significa sapere che nell’altro c’è comunque del buono. Significa sentirsi bene con se stessi. Esserne fieri. Godin ci suggerisce di concederci l’opportunità di realizzare soluzioni di cui essere orgogliosi. Un invito ad amarci, ad amare il nostro lavoro, il cliente che ci proponiamo di servire e la persona che vogliamo essere. Il branding umano è progredire, è generare un cambiamento positivo. Umanizziamo il nostro brand. Concediamo ai brand l’opportunità di migliorare la nostra qualità sociale, morale e culturale.
Brand capaci di generare apprezzamento
Van Gogh é un brand. Banksy é sempre più un brand affermato. Obama é stato un brand acclamato. Trump non è un brand.
Apprezzo la vita e l’opera di Van Gogh. Apprezzo l’opera e l’intelligenza di Banksy. Apprezzo l’intuizione e la perspicacia di Obama. Non apprezzo Trump.
I brand sono capaci di generare apprezzamento e riconoscibilità valoriale.