Ma dove ci stiamo dirigendo?

I brand tra woke culture, anti-woke e la necessità di un cambiamento che sembra non arrivare.

Aprile 16, 2025

cambiamento culturale
Domanda ambiziosa, ma necessaria, perché ogni impresa, ogni brand, ogni individuo si muove all’interno di un contesto in trasformazione. E se non comprendiamo la direzione del cambiamento, rischiamo di subirlo invece di guidarlo.

Buona lettura
Vittorio 

Tra innovazione e incertezze

La tecnologia sta ridefinendo il modo in cui viviamo, lavoriamo e comunichiamo. L’intelligenza artificiale accelera i processi, sostituisce mansioni, apre scenari inediti. L’economia globale è instabile, frammentata. Nuovi equilibri geopolitici, crisi energetiche, dazi, anti-dazi e super xazzi. Ricorso all’armamento, inflazione e cambiamenti nei modelli di consumo. La crescita non è più un percorso lineare, ma un adattamento continuo. In questo scenario, i brand che sopravvivono non sono quelli più forti, ma quelli più flessibili, resilienti, compatibili con il cambiamento.

Ma a quale cambiamento mi riferisco?

A quello invocato dalla woke culture, che spinge per inclusione, equità, consapevolezza sociale?  O a quello della reazione anti-woke, che oggi sembra consolidarsi più che mai?  Viviamo in un tempo in cui si alzano muri: dazi su dazi, barriere culturali, polarizzazioni perentorie. C’è chi prova a vedere  la Striscia di Gaza come meta turistica mentre erige statue dorate a simboli di un potere che divide. L’immaginario collettivo oscilla tra satira e distopia, tra apatia e idolatria. Ci stiamo dirigendo verso una polarizzazione sempre più netta tra chi sceglie la valorizzazione delle diversità e chi la vede come ambiguità. Perentoria inutilità.

A mio avviso, oggi più che mai, emerge il bisogno di umanità, di autenticità, di connessione vera. Le persone vogliono significato. Il consumo non è più solo una scelta economica, ma culturale. I brand non vengono più solo comprati: vengono scelti, perché condividono una visione, perché rispondono a un bisogno di identità.

Bisogna prendere posizione

Non basta più produrre e vendere: bisogna prendere posizione, creare valore. Chi pensa ancora in termini di business separato dalla società è destinato a fallire.

In un mondo che polarizza, i brand che scelgono di unire sono quelli che lasciano il segno. Qualche esempio?

Patagonia non vende solo giacche: semina futuro, investendo gli utili nella difesa del pianeta e restituendo alla natura ciò che l’uomo le sottrae. Ben & Jerry’s non produce solo gelati: denuncia le ingiustizie sociali, scende in strada, prende posizione. C’è Rose Marcario, ex CEO di Patagonia, che parla di “just business” come unica strada per un capitalismo più equo; e Hamdi Ulukaya, fondatore di Chobani, scrive: non serve un nuovo business plan, serve un nuovo cuore per fare impresa.

E ci sono migliaia di piccoli imprenditori e imprenditrici, artigiani del cambiamento silenzioso, che ogni giorno scelgono la coerenza alla convenienza. – E io, tra loro, mi sento a casa.

Non sappiamo con certezza dove ci stiamo dirigendo. Ma possiamo decidere come andarci. Possiamo scegliere di portare con noi ciò che ci rende umani: la cura, la visione e il coraggio di prendere posizione in qualunque modo.

Ogni scelta è una dichiarazione di intenti. E ogni brand, piccolo o grande che sia, ha la possibilità di essere più di un prodotto: può essere un segno. Un messaggio. Un cambiamento in atto.