Escludendo quindi le logiche che prevedono “non voglio un trapano ma un buco nel muro”, vi dico la mia e a mio modo sul perché compriamo, ricopriamo, usiamo e scambiamo solo ciò che amiamo o che impariamo ad amare. Un percorso che parla di un’arte che, seppur non destinata alla vendita, genera prodotti che sono parte di un settore che genera milioni di dollari.
Buona lettura
Vittorio Varavallo
Premessa
Agli inizi degli anni novanta ero un giovanissimo studente dell’Accademia di Belle Arti di Napoli. Volevo fare l’artista, vivere d’arte. Era quello che sentivo e a cui aspiravo: l’unico modo per affermarmi ai miei occhi e a quelli di nessun altro.
Nell’estate del 96, per l’esame di storia dell’arte, ci fu dato come testo integrativo Il corpo postorganico di Teresa Macrì, un volume che delinea i percorsi dei body artist degli anni 70. Per capirci e non confondere questo movimento con la “semplice” decorazione pittorica del corpo: se Klein utilizzava, per le sue antropometrie, i corpi come pennelli, i body artist facevano del corpo, soprattutto il proprio, uno strumento di esplorazione da sacrificare. Queste azioni invitavano a ragionare su temi a noi oggi molti cari: identità, genere, sessualità, dolore, sostenibilità, politica e sull’accettazione e la dissociazione dell’individuo in società.
Mi riferisco quindi ad un’arte che non si esprime attraverso la realizzazione di un prodotto fisico: dipinto, scultura, incisione, installazione, fotografia o video. La body art nasce attraverso l’azione performativa dell’artista, documentata – dove possibile, se organizzata o prevista – attraverso foto e video. Documentazione che in parte possiamo trovare oggi in rete.
Guardiamo, ad esempio, Relation in space di Ulay e Abramovic. Cosa ne pensi di due corpi che si incontrano, si sfiorano, si toccano per poi scontrarsi?
Molti potrebbero non trovare alcuna associazione logica, ma il mio è un invito a leggere oltre il visibile. Logica che appartiene al Branding e alla buona comunicazione d’impresa.
Abramović ha affermato che l’idea era di mettere insieme l’energia maschile e femminile per creare qualcosa che chiamavano “Quel Sé”. Questo “Quel sé” è un concetto, un’idea che vuole, prima di tutto, generare emozioni. Gli artisti ci offrono gratuitamente un messaggio ma ci invitano a spendere il nostro tempo per guardare, capire, emozionarci, riflettere e imparare. Beh, se riflettiamo su quanto oggi molti di noi e molti brand fanno sui social, e più in generale in comunicazione, questa pratica ci è molto più vicina di quanto immaginiamo.
Secondo le logiche di branding, il brand potenzia la propria riconoscibilità attraverso una pratica costante e diffusa della propria visione d’impresa, utile ad acquisire quote di mercato per crescere, evolvere e progredire.
Dov’è il prodotto destinato alla vendita?
Nel caso dei body artist, il risultato dell’azione diventa materia attraverso la documentazione fotografica: prodotto replicato destinato alla vendita. Il valore del brand, l’esperienza generata e la sua funzione emotiva e distintiva è prodotto che in commercio vale cifre a 4 zeri.
Il mercato globale dell’ arte ha raggiunto nel 2023 un valore di 65 milioni di dollari. Le opere di performance, come “Rhythm 0”, di Abramovic hanno raggiunto quotazioni superiori ai 500 mila dollari per pezzo. “The Artist is Present” ha attirato in tre mesi 750 mila visitatori al MoMa di New York, divenendo una delle esposizioni più viste della storia di un museo che è tra i più visitati al mondo.
In sintesi, io non voglio un buco nel muro, voglio quel trapano, possibilmente (se posso permettermi l’acquisto) di quel brand, perché ne sono attratto, perché ne condivido le logiche e il motivo d’esistere.
Come si fa a non amare e comprare Ichnusa quando in “se deve finire così non beveteci nemmeno”, ci educa a non abbandonare le bottiglie nell’ambiente?
I brand amano e noi amiamo i nostri brand: uno scambio emozionale che attraverso l’acquisto diventa esperienza condivisa, crescita e progresso.